BENVENUTI, CHIUNQUE VOI SIATE

Se siete fautori del "politcally correct", se siete convinti che il mondo è davvero quello che vi hanno raccontato, se pensate di avere tutta la verità in tasca, se siete soliti riempirvi la bocca di concetti e categorie "democraticizzanti", sappiate che questo non è luogo adatto a Voi.

Se, invece, siete giunti alla conclusione che questo mondo infame vi prende in giro giorno dopo giorno, se avete finalmente capito che vi hanno riempito la testa di menzogne sin dalla più tenera età, se avete realizzato che il mondo, così come è, è destinato ad un lungo e triste declino, se siete convinti che è giunta l'ora di girare radicalmente pagina , allora siete nel posto giusto.
Troverete documenti,scritti, filmati, foto e quant'altro possa sostenervi in questa santa lotta contro tutti e tutto. Avrete anche la possibilità di scrivere i Vostri commenti, le Vostre impressioni, le Vostre Paure e le Vostre speranze.

Svegliamoci dal torpore perché possa venire una nuova alba, una nuova era!


domenica 31 luglio 2011

NESSUNO TOCCHI LA TOMBA DEL DUCE!

Se vi ricordate bene, cari lettori, tempo fa avevo scritto del desiderio di certi post-comunisti di distruggere monumenti, effigi e quant’altro potesse vantare memoria fascista. Allora mi domandavo, seppur in maniera polemica, quale sarebbe stato il prossimo passo. Ipotizzavo l’oscuramento dell’opera di personaggi del calibro di Pirandello, D’Annunzio ed Evola; la distruzione di Sabaudia, Latina, Aprilia e tante altre città, fondante proprio durante il Ventennio; l’inabissamento dell’Agro Pontino, della Maremma e del Polesine; l’incendio alle sedi dell’Inps.
Provocazioni, direte; ma neanche tanto col senno di poi! Infatti, c’è chi riuscito ad andare anche oltre. Mi riferisco alla notizia circolata pochi giorni fa: il vicepresidente della provincia di Pistoia, Roberto Fabio Cappellini, 40 anni, di Rifondazione comunista, vorrebbe togliere da Predappio la tomba di Benito Mussolini, per evitare una volta per tutte le manifestazioni nazionali di nostalgici. Dice di rifarsi direttamente a quanto avvenuto in Baviera, dove la tomba di Rudolf Hess, braccio destro di Hitler, è stata distrutta e le ceneri del gerarca disperse in mare. “Una battuta tra amici, diffusa su un social network” avrebbe detto il Cappellini[1].
Certo, quello che dicono questi signori rientra sempre nel “solco dell’ironia” ; non è mai grave né, tanto meno, può destare allarmismo. Si sa: quando parlano, trasudano intelligenza, arguzia e acume intellettuale.Solo nel momento in cui è la controparte, (evidentemente rozza e maldestra a prescindere!), a cedere alla goliardia, ogni battuta, anche la più innocua, assume i contorni di un passaggio in armi del Rubicone, di una marcia verso Roma, e si agita lo spettro della legge Scelba a proibire, prima ancora che la libertà e la diversità di pensiero, anche le battute di spirito. Coerenza , signori, coerenza.

Ma non finisce qui, perché voglio dirvi un’altra cosa: con simili iniziative, proposte o provocazioni, (chiamatele pure come volete, tanto la sostanza non cambia!), non solo non fate altro che rivelare la vostra indole barbara, anzi vandalica, e forcaiola, che non si ferma neanche davanti ai defunti; ma non raggiungerete nemmeno il vostro scopo. Non è turbando la quiete dei morti che cancellerete quelle idee: queste, infatti, sopravvivranno nel corso tempo e si trasmetteranno di padre in figlio, perché sono l’espressione più autentica dell’antico spirito europeo. E guai se così non fosse, perché rappresentano anche l'unica speranza concreta per il Vecchio Continente! Prima lo capirete e meglio sarà per tutti!

Prima di salutarvi, voglio rivolgervi un interrogativo, giusto per stimolarvi alla riflessione. L’ho attinto da Leo Longanesi: “Che strana democrazia e' mai quella che vieta di rimpiangere un dittatore scomparso, e che strano dittatore fu mai quello se trova tanti disposti a rimpiangerlo in tempi di democrazia?”
Pensateci, mi raccomando!

Roberto Marzola.



mercoledì 27 luglio 2011

QUEL VECCHIO SOGNO CHIAMATO EUROPA

Il post che segue può essere considerato la prosecuzione, logica ed ideale, di quello riguardante i tragici fatti norvegesi e la squallida manovra politica che ne è scaturita. Viste le macchinazioni e le storpiature che sono state operate, è bene cercare di gettare un fascio di luce su quegli ideali sui quali le forze cd. “di sinistra” stanno cercando di gettar fango per l’ennesima volta!
Credo di poter parlare a nome di tanti se dico che il sogno resta quello dell’Europa, della vecchia Europa. Userò il plurale quindi; a questa voce potrà unirsi quella di chiunque voglia dire la sua.
Europa non è e non può essere solo un’espressione geografica. Così come l’Europa non è solo un’accozzaglia di stati satellite, messi insieme da interessi economici e monetari. Nossignore: come ho già detto altre volte, ritengo che l’Europa delle banche e delle monete sia solo un contenitore vuoto, uno strumento buono per soddisfare gli sporchi interessi dei soliti noti.
Noi vogliamo, invece, un’Europa libera da egemonie straniere, orgogliosa del suo passato di dominatrice e civilizzatrice dei popoli, fiera e consapevole delle proprie radici romano-germaniche. Un’identità in cui credere e in cui rispecchiarsi quotidianamente per cercare di sottrarsi al declino del mondo moderno. Perché, in fondo, crediamo che esistano due nature: un ordine fisico e uno metafisico, che si traducono nella “regione superiore dell’essere” e in quella “inferiore del divenire”. Ne deriva che il vostro progresso, ovverosia la graduale perdita di contatto col sovrannaturale e col mondo della Tradizione, è proprio la causa del declino della nostra Europa. Quel progresso, fatto solo di consumo, che ha portato ad un io ipertrofico, che è solo quello mortale del corpo e che attiene solo al mondo materiale, mentre noi abbiamo la necessità di indirizzarci «alla realizzazione di forme effettivamente super-personali, di tendere ad una rinascita in una super- vita» per combattere il materialismo russo-americano. Una super -vita che può sgorgare solo dalla dirompente forza della Tradizione e delle sue categorie, dalla ri- valorizzazione dell’uomo, inteso non come potenziale consumatore, ma come comunità, come insieme di persone, ognuna  sì dotata di una propria specificità, ma pur sempre inquadrata in una visione d’insieme, in una gerarchia predefinita, e ognuna portatrice di valori e tradizioni autoctone, genuinamente e orgogliosamente europee.  Una “visione organica” del tutto: dell’io, dello Stato, della società, della Nazione.
Dobbiamo, in altre parole, riscoprire l’antica anima europea, costituita da tanti frammenti. In particolare, dalla “pietas” romana, ossia quel senso di amore patriottico, di rispetto per la famiglia, (autentico e fondamentale “mattone sociale”), e per la gerarchia, valori magnificamente incarnati da Enea, progenitore di Roma, mezzo uomo e mezzo dio, eppure rispettoso dei valori tradizionali; dalla fierezza e dalla fedeltà dei popoli germanici, legati tra di loro da vincoli familiari, da patti di sangue e di onore; dalla purezza delle genti nordiche, così fiere delle proprio radici eppure così dolci, candide e mansuete come la neve d’inverno.  Nel riscoprire la nostra anima, la nostra identità e le nostre radici possiamo ispirarci alle esperienze del medioevo feudale, imperiale e cavalleresco che videro rinascere gli antichi valori, questa volta impersonati dalla magnifica personalità di Federico II di Svevia, dai cavalieri alla ricerca del Sacro Graal, (che può ben essere la metafora della propria essenza storica, culturale e sociale), dei trovatori che cantano valori immortali, giacché ritraggono l’uomo nel suo continuo sforzo di raggiungere orizzonti sempre nuovi e sempre più alti. Altro che “secoli bui”,insomma, definizione che si addice a ben altre epoche storiche: all’Illuminismo feroce, alla cruenta Rivoluzione Francese, alla Conferenza di Yalta e alla conseguente spartizione del mondo in aree di influenza, entrambe rette dal becero materialismo di cui sopra.
Questo è stato il peccato originale ed è questo che dobbiamo combattere, prima ancora che l’usura bancaria, le daneistocrazie, le barbare ondate migratorie e tutti gli altri mali che affliggono la nostra vecchia Europa!
Il primo passo, insomma, resta quello di riappropriarci di noi stessi. Serve  una “rivolta contro il mondo moderno”, una rivoluzione culturale, (come ho già avuto modo di dire), perché protagonista della storia non è tanto l’uomo, quanto la cultura. E’ la cultura che eleva e distingue dal mondo informe e gelido del materialismo consumista e comunista che attanaglia il mondo moderno. Come dicevo prima, dobbiamo arrivare ad un sovvertimento di tutti gli pseudo-valori di quest’epoca, per tornare ad uno stato primitivo, non ancora corrotto dalla mendacia e dalle convenzioni dell’oggi, e dominato da una sana barbarie, in cui l’uomo sia “buon selvaggio”, in cui riesca a ristabilire una continuità con le origini, nonché un rinnovato equilibrio tra lo spirito “apollineo” e quello “dionisiaco”.
Fatto questo, riscoperto il nostro vero “io”, tutto il resto verrà da sé e l’Europa tornerà ad occupare il posto che le spetta: non più serva, ma regina.  Soltanto riappropriandosi del suo passato, potrà impossessersi del suo futuro.
Roberto Marzola.
Liberamente ispirato da:
J. Evola – “Rivolta contro il mondo moderno
O. Spengler – “ Il tramonto dell’Occidente
F. Nietzsche – “La nascita della tragedia
R.Sermonti – “Stato organico

lunedì 25 luglio 2011

NORVEGIA: E’ PARTITA LA SQUALLIDA MANOVRA POLITICA!


Come sono prevedibili i figli e nipoti dei compagni, che poi compagni rimangono ancora oggi, malgrado i loro tentativi di nascondere la verità! 
A poco tempo dalle stragi di Oslo e Utoya si sono già attivati per buttare, come al solito, tutto in politica. Che strano!
Rispetto per i morti? Solo una questione di facciata; conta solo il risultato politico- elettorale!
La logica è semplice: siccome i Paesi scandinavi sono in tumulto e vedono una crescita costante dei partiti di ispirazione neofascista o, se preferite, “di estrema destra” o “destra xenofoba”, allora non c’è tempo da perdere. Bisogna alzare le barricate e sfruttare ogni cosa che possa tornare utile alla causa, compreso l’operato di un pazzo criminale che, svegliatosi un bel giorno, decide di compiere una strage, anzi due. Stando alla logica di questi sinistrosi signori, si dovrebbe far capire alla gente che questo signore è, in realtà, il prodotto delle idee di una parte politica precisa; la regola e non la drammatica eccezione. Vi è la necessità di terrorizzare la gente. Anche il terrorismo politico è ammesso. D’altronde si sa: in amore e in guerra,(sì, perché dietro al suo pacifismo di facciata questa gente cela una continuo stato di belligeranza!), tutto è lecito.

Ebbene, cari signori, vi chiedo una cosa: ma questo Breivik cosa avrà di “neofascista” o di “destra estrema”?  Io, che certe idee credo proprio di conoscerle, dico che di tutto ciò che volete attribuirgli NON HA PROPRIO UN BEL NIENTE!
Pensate davvero che credere in certe idee significhi, sostanzialmente, essere un integralista  religioso, un criminale assetato di sangue, un folle irragionevole, un anti-islamico, un razzista ecc. ? Se davvero pensate questo, mi spiace ma o non avete capito niente, oppure siete in assoluta mala fede e vi fa comodo pensarlo. Non so quale delle due alternative sia peggiore. Scegliete pure quella che più vi aggrada; non vi giudicherò, statene pur certi. Al massimo vi prenderò per ciò che siete...

E poi da che pulpito viene la predica? Pensate un po’ ai vostri bravi ragazzi dei centri sociali, che magari non sparano e non piazzano bombe, (almeno non ancora), ma che non perdono occasione per mettere a ferro e fuoco intere città e/o zone d’Italia: ieri Genova e Roma, oggi la Val di Susa. Preoccupatevi del fatto che non perdete occasione per giustificarli. Vi rendete conto che li avete chiamati anche “ragazzi vivaci”? Vi rendete conto che li avete anche aizzati nel loro agire? Fatevi un esamino di coscienza, per favore, prima di parlare!

Ma a parte questa breve digressione, torno a chiedervi: siete così sicuri che Breivik sia proprio come lo dipingete? Io mi sono preso la briga di fare un giro su internet e di leggere vario materiale, tenendo ovviamente gli occhi ben aperti per non farmi abbagliare da false notizie. Ne sono emerse di cosette, che ovviamente i media non dicono. Innanzitutto, direi che i campanelli d’allarme dovrebbero già suonare, anzi impazzire, quando questo signore parla di “nuovo Ordine dei Templari”. Ma possibile che in Italia siete così bravi a vedere P2, P3 e P4 ovunque, e ora non vi accorgete che in questo caso non si tratta di un riferimento all’antico ordine cavalleresco, bensì alla Massoneria ?
In un video che circola in rete, poi, (e che potete reperire a questo indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=R_o3Ah0P2SY&feature=player_embedded&skipcontrinter=1), Breivik, apparso in abito massonico, “mette sullo stesso piano Marxismo (“the anti-European hate ideology”), Islam (“the anti-kafir hate ideology“) e Nazismo (“the anti-Jewish hate ideology“). Non solo, anche la “Cristianità pre-illuminista” (pre-enlightenment Christendom) viene messa tra le “ideologie genocide” ”[1]. Direi che è davvero molto insolito per un “neofascista”; ancor più insolito per un ferreo credente che, praticamente, usa il termine “cattolico” solo come clava contro l’Islam, senza riferimento alcuno a principi e/o ai valori genuinamente cristiano-cattolici. 
Non siete convinti che possa trattarsi di un massone? Allora leggete cosa scrive il sociologo italiano Massimo Introvigne, rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezzae la Cooperazionein Europa) per la lotta all’intolleranza e alla discriminazione contro i cristiani, già autore di diverse opere sulla Massoneria: “Quanto a Breivik  mi colpisce la sua fotografia che lo rappresenta con tanto di grembiulino massonico come un membro di una loggia di San Giovanni, cioè di una delle logge che amministrano i primi tre gradi nell’Ordine Norvegese dei Massoni, la massoneria regolare della Norvegia. Secondo la stampa norvegese Breivik farebbe parte della Sǿilene, una delle logge di San Giovanni di Oslo di questo Ordine, che naturalmente sarebbe altrettanto assurdo collegare all’attentato. Queste logge praticano il cosiddetto rito svedese, che richiede ai membri la fede cristiana. Ma nessun fondamentalista protestante diffonderebbe sue fotografie in tenuta massonica: il fondamentalismo, al contrario, è fortemente ostile alla massoneria. Dalla lettura dei suoi post, relativamente frequenti, su document.no, che non è un sito cristiano fondamentalista ma nazionalista e anti-islamico, Breivik emerge come molto più vicino a una delle branche (quella filo-israeliana, mentre un’altra è antisemita) del movimento dell’identità cristiana, uno strano miscuglio di razzismo, esoterismo, odio per gli immigrati e ‘cristianesimo nordico’ che non al fondamentalismo[2]
Come se non bastasse, poi, lo stesso Breivik, in uno dei suoi scritti sparsi per la rete scrive, lasciando tanto di firma autografa, le seguenti parole: “Dobbiamo assicurare la nostra influenza su altri conservatori, affinché sposino la nostra linea di pensiero anti-razzista, filo-omossessuale e filo-israeliana”.

Cosa c’è, allora, di “destra” in tutto questo? ASSOLUTAMENTE NULLA! 
Resta solo la follia di un uomo, (o di più uomini?), con le sue deliranti teorie e i suoi farneticanti propositi per un nuovo ordine mondiale. Ovverosia, ciò che il Fascismo ha sempre combattuto e che, invece, ha sempre proliferato nelle moderne “demo-pluto-crazie”. Con buona pace di chi vuole vederci la mano di un novello "nazi-fascista" !

Roberto Marzola.


giovedì 21 luglio 2011

INTERROMPETE LA “BEATIFICAZIONE” DI CARLO GIULIANI

Ieri, in occasione del decennale della morte, sono state diffuse le immagini delle ultime ore di vita di Carlo Giuliani, giovane manifestante ucciso accidentalmente durante il G8 di Genova. Sottolineo “accidentalmente” , perché la Corte Europea dei Diritti Umani il 24.03.2011 ha assolto sia l’Italia sia Placanica dall’accusa di aver responsabilità nella morte del ragazzo.
I video, rimasti fino ad ora inediti per il grande pubblico, ritraggono un ragazzo irrequieto, animoso e rissoso: ora viene immortalato  mentre rovescia un cassonetto per creare una barricata; ora mentre imbraccia una spranga di ferro e riversa tutta la sua ira contro le forze dell’ordine; ora mentre distrugge e danneggia. Insomma, un criminale in piega regola; un vandalo da quattro soldi.
Sia chiara una cosa: lo dico senza la minima volontà di offendere; il mio cuore è ricolmo di rispetto per un ragazzo defunto. Tuttavia, un’altra cosa non sopporto: che la morte, pur tragica, alteri la realtà e i giudizi su fatti e persone. Già, perché Carlo Giuliani sembra essere oggetto di una sorta di processo di “beatificazione”  civile, lungo 10 anni, posto in essere dalle forze di centro-sinistra. In molti ricorderanno la targa commemorativa in Parlamento, voluta dai membri di Rifondazione Comunista, e successivamente rimossa; un’altra targa è stata posta ieri a Genova sul luogo dell’accaduto, tra una marea di pugni chiusi, (giusto per riportare alla realtà chi insinua che tra questa gente possano nascondersi “nazifascisti al soldo della borghesia”), che reca una scritta: “piazza Carlo Giuliani, ragazzo”.
Non mi sta affatto bene. E’ vero che Carlo Giuliani è e resterà per sempre un ragazzo nella memoria; ma per me e per tanti rimarrà un ragazzo vittima, in primis, della sua follia e delle sue idee anarco-comuniste. Un ragazzo dei centri sociali che con la sua guerriglia urbana ha contribuito alla sua morte drammatica e a rovinare la vita della sua famiglia e del Placanica. Non voglio infierire e tralascio la voce “danni”.
Il fatto che sia deceduto non può e non deve cambiare ciò che è stato; un conto è onorare la memoria di un defunto, ben altro è elevare un delinquente di strada a martire di chissà cosa. Sono ben altri, infatti, i simboli della lotta allo Stato e, più in generale, al sistema. Così come sono altri i modi per condurre la lotta: non certo quelli, esecrabili e controproducenti, di chi scende per strada armato, distrugge, incendia e devasta. Bisogna volgere l’occhio a modelli di riferimento completamente diversi, rivoluzionari nel pensiero prima ancora che nell’agire quotidiano: bisogna imparare dagli Ezra Pound, dai Bobby Sands, dai Mishima e da tanti altri che non sto qui ad elencare per motivi di brevità.
Quindi, in conclusione, alle forze di centro-sinistra che vogliono cambiare ancora una volta la storia, iniziamo a rispondere coi fatti, con i video e con le testimonianze; alziamo un muro di profonda cultura; opponiamoci al loro tentativo di trasformare mere condotte violente in atti di ribellione e di lotta. Perché questo Paese ha bisogno di tutto tranne che di un’altra bugia. La verità è l’ultima speranza dell’Italia. Non dimentichiamolo.

Roberto Marzola

martedì 19 luglio 2011

OMAGGIO A PAOLO BORSELLINO

Parlare di Paolo Borsellino non è facile. Impegnato insieme all'amico di sempre, Giovanni Falcone, in prima linea contro la Mafia; disposto a dare tutto, anche la sua vita, pur di contrastare il malaffare. E, purtroppo, il suo impegno e il suo senso della legalità gli costarono proprio la vita in quel maledetto 19 luglio 1992 in via D'Amelio. Una fine tristemente annunciata, almeno a sentire le rivelazioni dei pentiti. Pare, infatti, che l'attentato fosse preparato fin nei dettagli già dal 1991. Destino di cui Borsellino sembrava essere dolorosamente consapevole, tanto che ebbe a dire: "siamo uomini morti che camminano".
Troppe ombre aleggiano sulla tragica fine di Falcone e Borsellino. Fenomeni di collusione tra mafia e politica, (riportati alla ribalta dalla recente vicenda della trattativa sul 41 bis), coperture istituzionali e depistaggi. Circostanze che lo stesso Borsellino aveva ampiamente messo in preventivo, allorché disse: "Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia: la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri".
Una storia tutta all'italiana insomma. Purtroppo, viviamo in un Paese dove la verità è l'eccezione e l'infangamento la regola. Siamo un popolo destinato ad essere pigliato per il culo; allora non resta che informarsi, che volgere la mente alla conoscenza. Una rivoluzione culturale, proprio come suggerito da Borsellino, per sentire finalmente "la bellezza del fresco profumo della libertà".

Roberto Marzola.

P.S. A proposito di sospetti leggete questo articolo tratto da "Il sole 24 ore".


Borsellino, una verità che divide




Non c'è pace in via D'Amelio. È trascorso quasi un ventennio da quel 19 luglio 1992, ma la strage in cui persero la vita Paolo Borsellino e 5 agenti della sua scorta è una ferita che sanguina ancora. Le celebrazioni delle vittime dell'autobomba mafiosa ancora oggi agitano la società, e mandano in fibrillazione il mondo politico, la magistratura, le forze dell'ordine. Così, ieri, per l'ennesima volta, il ricordo si è venato di polemica.
Ancor più della strage di Capaci - che solo il 23 maggio '92 aveva sterminato Giovanni Falcone con la moglie e la scorta - l'attentato di Via D'amelio si colloca al centro dell'oscuro crocevia della "trattativa" tra Cosa nostra e lo Stato: basta stragi in cambio di processi addomesticati e carcere meno duro. Il mistero, rilanciato due anni fa dal mafioso collaborante Gaspare Spatuzza e dal figlio di Vito Ciancimino, Massimo, a settembre potrebbe sfociare in un nuovo processo per scagionare alcuni mafiosi e inchiodarne altri. Intanto, però, le indagini hanno sfiorato poliziotti, Servizi, politici e ruoli istituzionali.
I familiari di Borsellino hanno rinnovato ieri la richiesta della verità, almeno quella giudiziaria: «È venuto il momento di sapere chi e perché ha organizzato il depistaggio» ha ripetuto il figlio Manfredi, dirigente di polizia a Cefalù. Ma le sue parole di figlio e di cittadino sono state sovrastate da quelle duramente politiche del procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia. Il Pm, nel corso di una manifestazione di giovani inneggianti alla magistratura e alle sue indagini su stragi e presunta trattativa, ha pronunciato parole di fuoco contro i depistatori di allora e le coperture politico-istituzionali di cui godrebbero ancora oggi.
«L'Italia dei collusi e dei corrotti non vuole conoscere la verità sui misteri come la strage di via D'Amelio» ha scandito Ingroia durante il presidio dei giovani di Agenda Rossa a Palazzo di Giustizia, e ha invitato a «rifiutare il tentativo di quanti vogliono i cittadini teledipendenti e sudditi». Proprio il genere di orazione che ogni magistrato farebbe bene a evitare, specie se in qualche modo interessato alle inchieste. E infatti, da Roma, è giunta immediata e rovente la replica della Lega (Carolina Lussana: «È da irresponsabili lanciare sospetti») e dal Pdl (Fabrizio Cicchitto: «Non sappiamo di chi parli Ingroia; noi vogliamo si faccia luce in modo reale e non per propaganda»).
Maggior attenzione al significato che ha assunto nel tempo il sacrificio di Borsellino, proviene dalla società civile. Lo ha ribadito il vicepresidente di Confindustria Antonello Montante, nisseno, in un messaggio inviato alla Fondazione Borsellino, che dal 2005 affianca la scuola nel compito di formare cittadini liberi dalle suggestioni mafiose. Presieduta dal sostituto Procuratore Gaetano Paci, la Fondazione si ispira alla memoria del magistrato che «del rispetto della legalità e dei principi di giustizia, della lotta alla mafia e alla corruzione aveva fatto il suo credo quotidiano» scrive Montante; un «dovere e un valore che tutte le persone oneste possono condividere», proprio come ha fatto l'impresa siciliana: «Quelli di Borsellino sono gli stessi principi ispiratori che hanno portato Confindustria a prevedere l'espulsione di chi si avvicina alla mafia e distorce il mercato».
Oggi le cerimonie proseguiranno con altre manifestazioni e la presenza (disgiunta) del ministro dell'Interno e del presidente della Camera. Roberto Maroni deporrà una corona alla lapide affissa al reparto scorte di Palermo; gianfranco Fini si recherà invece sul luogo della strage.

sabato 16 luglio 2011

GLI UOMINI DELLA RSI: GIAMPIETRO PELLEGRINI

PELLEGRINI GIAMPIETRO, IL MINISTRO CHE SALVO' LE RISERVE AUREE


Vi propongo un articolo di Bruno De Padova, tratto da ITALICUM  settembre-ottobre 2003 Anno XVIII . Parla di uomini, dimenticati da questa infame repubblica, che hanno in qualche modo salvato l'Italia dal disastro verificatosi a seguito dell'otto settembre 1943. L'unica cosa che mi viene da dire è che in quei giorni alcuni furono semplicemente "partigiani"; altri, come Pellegrini, autentici patrioti. La differenza non è solo semantica, ma va dritta alla sostanza, diretta all'essere uomini. Mi fermo qui, altrimenti potrei diventare pesante.

Buona lettura.
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Domenico Giampietro Pellegrini quell’integro docente di Diritto pubblico comparato nel l’Università di Napoli, dal 1934 in poi, e che, contemporaneamente, fu anche maestro di norme giuridiche ed economiche alla facoltà d’Ingegneria del medesimo Ateneo partenopeo, è stato l’uomo politico davvero capace ed altrettanto garante di coerenza che Benito Mussolini il 23 settembre 1943 - nei giorni successivi al collasso delle FF.AA. italiane per la resa incondizionata al nemico complottata dai Savoia, da Badoglio e da altri pusillanimi- convocò e designò all’impegnativa conduzione del Ministero delle Finanze, Scambi e Valute nel governo della nascente Repubblica Sociale, cioè di quel dicastero che ebbe nel passato - dal dicembre 1869 al giugno 1873- per rigido amministratore quel Quintino Sella che, senza badare a qualsiasi rischio d’impopolarità, contribuì alla prima fase conclusiva dell’unificazione risorgimentale della nostra Patria, per la quale il giureconsulto del Potentino lucano (adesso Basilicata) intervenne con saggezza - dopo l’8 settembre sino al 28 aprile 1945 - per divenire l’autentico tutore dell’intero patrimonio di questo Paese in uno dei periodi più sconvolgenti del mondo intero e mentre il territorio dell’intera penisola, dal Brennero alla Sicilia e dalle Alpi Marittime alla Venezia Giulia, era conteso con continue battaglie per l’occupazione militare condotta dagli incalzanti invasori anglo-statunitensi e ostacolati sull’altra parte delle fronti dai soldati della Wehrmacht germanica, alquanto incattiviti dal subdolo voltafaccia compiuto dallo Stato Maggiore dell’Esercito regio con il vergognoso armistizio-tradimento, tra l’altro stipulato a Cassibile dal gen. Castellano circa una settimana prima della sua proclamazione forzata ed annunciata da D.D. Eisenhower mediante Radio Algeri quando a Roma ilmarchese di Caporetto avrebbe preferito continuare a ‘tacerlo’.

Dilagò in quei terribili momenti il completo disorientamento nelle popolazioni di qualsiasi regione italica, mentre le conseguenze della ‘diaspora’ massonica ricercata dagli amici dei nemici - così Antonino Trizzino indicò poi i voltagabbana del 25 luglio e del l’8 settembre - dilagarono ovunque insieme al malcostume dell’opportunismo unitamente agli abusi degli speculatori d’ogni specie, favorendo un camuffamento quasi collettivo in quell’antifascismo di comodo che nessun pluralismo di concetti poteva ammettere e che, per l’esattezza, costò troppe sofferenze alle categorie sociali più deboli.

Fu avverso a tale catastrofe politica, civile e sociale che il nuovo ministro delle Finanze della R.S.I. intervenne con fermezza, a tutela effettiva degli interessi dell’economia nazionale e delle nostre genti. Di ciò si ottiene la più chiara conferma da Filippo Anfuso che a pag. 487 e successiva dell’opera "Roma, Berlino, Salò" (ediz. 1950) precisò:

C’era un piccolo napoletano, tutto pepe e nervi, Pellegrini-Giampietro, che difendeva le nostre Finanze, e correva - tra Rahn e Mussolini- come quei ragazzi stizzosi e mingherlini che durante una partita di calcio si rivelavano dei grandi atleti per il solo miracolo della volontà’.

Fu con tale tenacia che quest’uomo collaborò col ministro dell’Economia Corporativa dott. Angelo Tarchi e con il suo sottosegretario prof. Manlio Sargenti all’approvazione in data 12 febbraio 1944 alDecreto-legge sulla Socializzazione delle imprese, strumento realmente rivoluzionario per l’equilibrio dei rapporti tra imprenditori e produttori nel mondo del Lavoro, tanto che Mussolini quando ne esaminò le bozze, disse: "E’ l’idea che volevo realizzare nel 1919!". Di ciò fornisce conferma Arrigo Petacco a pag. 171 del libro "Il comunista in camicia nera: Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini’ (ediz. 1996), tra l’altro altrettanto puntualizzato da Salvatore Francia nel volume "L’altro volto della Repubblica Sociale It." (ediz. 1988) in cui a pag. 121 illustra il "Programma di S.Sepolcro", autentico caposaldo della genuina ideologia fascista, e che con la "Carta del Lavoro" del 21 aprile 1927 ottenne una prima, ma parziale soddisfazione perchè ostacolata dalla borghesia e dai complici della plutocrazia.

Inoltre, questo "grande Ministro delle Finanze" della Repubblica Sociale - come lo definì con chiarezza lo stesso Mussolini - ottenne già il 25 ottobre 1943 (poche settimane dopo la sua designazione nell’incarico) il ritiro immediato dalla circolazione nell’intero territorio italiano dei ‘marchi d’occupazione’ (esattamente i Reichskreidit Kassenscheine) ed obbligando le truppe germaniche ad effettuare ogni pagamento esclusivamente con le lire italiane, imponendo contemporaneamente ad esse e ai loro Comandi di potere effettuare requisizioni indiscriminate o prelievi di fondi della nostra moneta presso gli istituti bancari. Altresì - in contropartita - fu concesso all’Ambasciata tedesca un contributo mensile di sette miliardi per tutte le spese militari, di fortificazioni, di riattazione delle vie di comunicazione ecc., facendosi confermare ciò mediante un protocollo che riaffermava la sovranità del nostro Stato nel settore monetario e di controllo assoluto sulla circolazione. Nel contempo, questo ministro impedì il trasferimento del nostro Poligrafico a Vienna, ottenendo - insieme alla nostra Ambasciata in Berlino - il trasferimento in Italia dei risparmi effettuati dai nostri lavoratori nel Terzo Reich, salvaguardando altresì le riserve d’oro e di platino italiane e ponendole al sicuro da qualsiasi rischio di possibili sottrazioni e fece restituire al nostro ministro degli Esteri buona parte dell’oro che le truppe occupanti avevano sottratto alla Banca d’Italia con l’armistizio, mentre pagò anche alla Confederazione Elvetica un debito del sorpassato governo regio. 

Sull’operosità costruttiva del ministro e sulle sue capacità indichiamo un’altra precisa conferma. E’ fornita da S. Bertoldi a pag. 311 del libro "Salò - Vita e morte della R.S.I." (ediz. 1976) in cui si precisa:"Rahn vedeva arrivare Pellegrini-Giampietro come un castigo di Dio. Impallidiva quando vedeva spuntare il ‘neapolitaner’ Pellegrini-Giampietro che veniva a difendere i quattro soldi della R.S.I. in tutti i dialetti del Mezzogiorno e se il plenipotenziario tedesco estraeva i sofismi geopolitici, Pellegrini - che è anche professore - lo ammutoliva con le sue verità scientifiche".


Esiste nel contempo un’altra importante documentazione su quest’uomo, lucano d’origine


e partenopeo d’adozione: è un opera che noi segnaliamo perchè, dopo la conclusione del 2° conflitto mondiale, fornisce un’ampia documentazione sull’azione svolta da Pellegrini-Giampietro a favore della nostra Nazione e del suo popolo. Si tratta del volume "Il ministro Domenico Pellegrini-Giampietro nel tramonto del Fascismo", edito a Napoli nel 1992 dai Fratelli Conte Editori, e che il dott. Angelo Norelli ha realizzato con scrupolosità di dettagli e che, come indica il prof. Michelengelo Mendella nella prefazione, fa emergere l’autore dell’opera "Forme di governo e moderne costituzioni" (è il Pellegrini del 1934) tra le figure più vive del Fascismo napoletano, tra quelle rappresentate dal giurista Alfredo Rocco, dall’economista Beneduce, dal giornalista Bruno Spampanato e da molti altri quali Padovani, Sansanelli, Tecchio e Baistrocchi. 

Nato a Brienza - in provincia di Potenza - il 30.8.1899, Domenico Pellegrini-Giampietro conseguì a Napoli la laurea in giurisprudenza e nella "Grande Guerra" (1914—1918), dopo avere attivato in Campania l’interventismo, combattè da volontario sulla fronte italo-austriaca, altrettanto fece nella Spagna a fianco della Falange (1936—1939) e poi, all’inizio del 2° conflitto mondiale, nella campagna di Grecia-Albania (1940—1941) subendo anche un’invalidità. Conseguì tre medaglie d’Argento, altre decorazioni straniere, due avanzamenti di grado per meriti di guerra sino a quello di colonnello. Nel contempo (ecco il ‘neapolitaner’ che faceva impallidire il plenipotenziario Rahn!) fu sempre uno studioso ed uomo politico di grande capacità, quale - ad esempio - direttore di "Scuola Sindacale"nell’Ateneo campano, segretario federale del PNF napoletano all’inizio del 1943, consigliere nazionale nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni e assolvendo persino al compito di sottosegretario di Stato per le Finanze sino al 25.7.’43.

Sulla tematica di diritto, politica ed economia, Pellegrini-Giampietro ha precisato che "lo Stato fascista - riallacciandosi al Risorgimento - ne ha compiuto l’opera, realizzando l’unità morale, politica ed economica della Nazione" e lo specificò nell’opera "La sovranità degli Stati moderni" (ediz. 1934), mentre, esaminando varie forme di essa, ne individuò tre: 1) la teoria teocratica, che si ha quando la sovranità viene esercitata dal governo in rappresentanza della Divinità; 2) la teoria legittimistica, di cui esempio tipico è la Restaurazione; 3) la teoria democratica col governo del popolo, distinta in radicale oppure liberale. Nessuna di tali sovranità - a suo avviso - se si considerano le contemporanee esigenze di sviluppo civile è all’altezza della formula politica indispensabile all’autentico progresso civile e, quando nel 1944 il ministro Carlo Alberto Bigini seppe eseguire il progetto di Costituzione della R.S.I. da fare approvare dal popolo, riconobbe - come puntualizzò a propria volta Piero Pisenti - che la Repubblica necessaria possedeva i presupposti fondamentali per lo sviluppo più avanzato in materia istituzionale e, in particolare, tramite il programma di tutela della proprietà privata e, nel contempo, quello sulla socializzazione dei redditi delle imprese produttive. A ciò fornisce un valido riconoscimento anche il filosofo e studioso partenopeo Edmondo Cione nella sua "Storia della R.S.I.", pubblicata a Caserta nel 1947, e in cui espone la promozione del Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista avvenuta a Milano nel febbraio 1945 con l’approvazione dello stesso Mussolini.

Nell’ambito degli uomini e delle scelte che distinsero la R.S.I., fra tutti i protagonisti della repubblica di Mussolini, quanto focalizza maggiormente l’azione di Pellegrini-Giampietro è quell’autobiografia "L’oro di Salò" pubblicata nel 1958 dal settimanale milanese "Il Candido" che fornisce la prova - quale memoriale - di quanto compì per impedire ai tedeschi di sciogliere il corpo della Guardia di Finanza per tutelarne i relativi compiti d’istituto; di come salvaguardò le riserve auree e di platino della Banca d’Italia nella sua sede a Fortezza (dove nel 1945 le trovarono gli anglo-statunitensi); per fare riacquistare ai titoli di Stato - scesi dopo l’8 settembre al di sotto del 30 per cento - il loro valore effettivo e tavolta a superarne la parità; di garantire all’esercizio finanziario 1944-1945 la compilazione regolare dei bilanci di previsione (pubblicati dalla "Gazzetta Ufficiale") tanto che le entrate complessìve furono di 380,6 miliardi, le spese di 359,6 miliardi e con un supero di 20,9 miliardi, senza fare ricorso a prestiti, nè d’emissione di buoni poliennali, mentre - nei soli primi mesi del 1945 - il gettito delle entrate fu superiore di due miliardi mensili. Inoltre, il ricorso alla stampa di monete fu di soli 110,881 milioni rispetto ai 137,840 autorizzati.

Sul giornale "Il Popolo" (Anno III, n. 24 del 25-8-1945) venne precisato che il senatore statunitense Victor Wickersham in una conferenza stampa, dopo il conflitto in Europa, dichiarò che "la situazione economica dell’Italia settentrionale (quella inerente la R.S.I.) è molto migliore non solo rispetto alle altre regioni dell’Italia meridionale e centrale (cioè, le occupate-invase dagli eserciti di Usa, Gran Bretagna ecc.) ma anche in confronto delle condizioni di altri Paesi europei in precedenza visitati dalla Commissione di controllo e - in particolare - di Germania, Olanda, Norvegia, Belgio e di certe zone della Francia". Fu un riconoscimento ineccepibile per il ministro delle Finanze della R.S.I.! 

In merito al cosiddetto "tesoro di Dongo", quello che la fantasia post-bellica suppose in possesso degli appartenenti alla colonna di Mussolini in ritirata verso la Valtellina a fine aprile 1945, Pellegrini-Giampietro l’ha definito un "marchiano falso storico", specie in riferimento a quantità di valuta estera, monete d’oro, gioielli ecc. perchè, sia le personalità politiche quanto i militari che ne facevano parte,possedevano soltanto le dotazioni finanziarie di loro pertinenza, quindi nulla di abusivo.

Come precisa A. Norelli nel libro citato, Pellegrini-Giampietro venne processato dopo la cosiddetta "liberazione" e, sebbene fu "protagonista della difesa del tesoro nazionale e si adoperò con tutte le forze affinché il territorio dell’Italia settentrionale (dell’intera R.S.I., per l’esattezza!) non diventasse completa preda dei tedeschi - così riconobbe la Corte Suprema di Cassazione - mentre la sua opera fu ispirata ad amor patrio, non già ad asservimento al nemico, tanto più meritevole in quanto svolta fra pericoli d’ogni genere, dovette patire anch’egli le conseguenze della "guerra civile" della parte perdente. 

Indi, nel 1949, l’ex ministro delle Finanze della R.S.I. emigrò in Brasile, poi in Argentina e nell’Uruguay, ove -con coraggio e decisione - costituì grandi complessi bancari, dirigendo a Montevideo il quotidiano"Sintesi" e collaborando con articoli sull’economia al periodico "La Manana". Eppure, sebbene amareggiato per le "restrizioni anche politiche" avesse lasciato la Patria, quando il 18 giugno 1970 si spense per infarto in terra straniera, Domenico Pellegrini-Giampietro lasciò alle nuove generazioni l’intero patrimonio della sua forza ideologica, quella che nella sintesi più significativa richiama al l’impegno politico dell’affermazione della socializzazione nell’economia produttiva, cioè all’autentico stimolo d’evoluzione mondiale di civiltà sociale e che Berto Ricci, già sulla rivista "L’Universale" del gennaio 1931, sollecitava d’elevare all’altezza di primato e che, a fine aprile 1945, prima di lasciare la Prefettura di Milano per affrontare il martirologio di Giulino di Mezzegra e poi di piazzale Loreto, Benito Mussolini indicò a G.G. Cabella, nella sua ultima intervista al direttore del "Popolo d’Alessandria", come vero vessillo per l’equilibrio produttivo e di benessere sociale per ogni cittadino nel mondo.

mercoledì 13 luglio 2011

LA TRAGEDIA DI ESSERE IL FIGLIO DI TOGLIATTI

Di questo "illustre" personaggio, definito ancora oggi "il migliore", mi sono già occupato allorché scrissi quel pezzo intitolato "le idiozie di Palmiro Togliatti". Me ne hanno dette di tutti i colori. Ricordo che mi sono sentito quasi come se avessi osato mettere in discussione la credenza religiosa di una tribù di selvaggi. E proprio come selvaggi certi signori, non sapendo, o potendo o volendo rispondere con l'intelletto, hanno inveito contro di me, sfogando tutta la loro rabbia repressa. Li avrò forse toccati in un punto molto sensibile? Chissà...

Fatto sta che, sfogliando i giornali, ogni tanto capita di imbattersi in qualche articolo davvero interessante. Questo l'ho trovato ieri su "Libero" e parla proprio dei lati oscuri della persona di Palmiro Togliatti, a cui tante vie e piazze nel nostro Paese sono dedicate. Direi che forse è il caso di iniziare a rivedere qualche giudizio su persone e fatti del passato. Buona lettura.

Roberto Marzola.

"Una tragedia: quella di essere il figlio di Togliatti"
Il povero Aldo abbandonato dal padre nella scuola di Stalin e poi, dopo aver tentato due volte invano di imbarcarsi per New York, rinchiuso in una clinica come malato mentale. 


A
ll’età di 85 anni, dopo un lunghissimo ricovero a Modena nella struttura psichiatrica di Villa Igea, sabato scorso (ma la famiglia ha diffuso la notizia soltanto ieri a funerali avvenuti) è morto Aldo Togliatti, il figlio negletto di Palmiro e Rita Montagnana. Era nato a Roma nel 1925, ma l’anno dopo si trovò sballottato a Mosca, dove il padre s’incaricò di spegnere per sempre le ragioni di Antonio Gramsci, che denunciò per primo i metodi stalinisti. Antonio, recluso nel carcere di Turi, da allora fu bollato di trockijsmo, mentre Palmiro si fece complice delle carneficine di Stalin.

Il piccolo Aldo, ragazzino studioso, diligente e acuto, ma timido e introverso, tutt’altro che violento, subisce le angherie del figlio di Tito e degli altri protagonisti del bullismo regnante a Ivanovo. Là, a Ivanovo, c’era la scuola della nomenklatura comunista, dove si educavano i figli dei dirigenti a diventare perfetti stalinisti. Togliatti, mentre il figlio subisce Ivanovo, s’incarica di far eliminare oltre mille comunisti italiani, migliaia di comunisti polacchi, qualche centinaia di compagni tedeschi, infine, migliaia di anarchici spagnoli massacrati non da Franco, bensì dai commissari politici al servizio dell’Nkvd.

NELL'INFERNO DI IVANOVO
Aldo rimane solo nell’inferno dei bulli di Ivanovo e una testimone d’eccezione, Vinca, la figlia di Giuseppe Berti,  donna di grandissimo spessore, lo ricorda sofferente, vulnerabile, ipersensibile, ombroso, portato, anzi costretto, a isolarsi. Avrebbe bisogno di affetto e di attenzioni, ma il babbo è preso dai lavori in corso per far nascere l’homo novus, ammazzando preventivamente gli uomini esistenti. Una volta, papà Palmiro e  mamma Rita lo vanno a trovare e gli promettono: «Aldino, staremo via due settimane, fai il bravo, a presto». Passeranno non giorni, settimane, mesi, ma anni.

Aldo non è gratificato dall’essere «figlio del partito»,  non si sente soldatino di Stalin, desiderando solo un po’ d’amore. Intanto, i compagni di scuola lo picchiano, lo scherniscono, perché non si comporta da comunista combattente, sentendo dentro di sé tutto il male di vivere del presunto Eden sovietico. Scrive lettere in francese, affettuose e rassicuranti, ai genitori, senza ricevere risposta; allora chiede alla zia Elena Montagnana, la moglie del delatore Robotti: «Perché la mamma non torna, dov’è papà?». Non mostra i tratti del rivoluzionario di professione, bensì lo spleen di chi soffre e, allora, viene etichettato come «malato mentale».

Invece, è figlio di Togliatti e dal padre ha ripreso alcuni tratti nascosti e sottaciuti, come quando Palmiro, nel 1922-1923, nel momento in cui i fascisti picchiano duro, sceglie di sparire dal mondo, lasciando a Bordiga e agli altri compagni il destino del manganello e dell’olio di ricino. In quel Palmiro, spaventato, anzi terrorizzato dalle azioni muscolari dei fascisti, c’è in nuce il crespuscolare, dimesso, delicato Aldo. Nel Dna di Togliatti c’era, dunque, l’eventualità dell’inerme Aldo, ma quella potenzialità esplode anche perché quel bambino fu abbandonato in nome di Stalin.

LA SEPARAZIONE DEI GENITORI
Nel 1945, Aldo torna in Italia, giusto in tempo per patire il sisma passionale di suo padre per Nilde Iotti e la conseguente dolorosa separazione di mamma Rita da babbo Palmiro. Nel 1951, figlio scomodo e non più presentabile, ebreo e malato, viene rispedito a Mosca, mentre Togliatti, insieme al partito nuovo, fonda anche la famiglia nuova con la Iotti e l’adozione di una bambina. Rita, per anni obbligata a stare a Mosca, per non disturbare la famiglia togliattiana di tipo nuovo, adesso si dedica al figlio sempre più traumatizzato e sofferente. Hanno problemi per mille motivi, anche perché entrambi ebrei, in una fase in cui esplode l’antisemitismo comunista, con tanto di cacce alle streghe contro i medici e l’omicidio di Rudolf Slansky, segretario del partito comunista cecoslavacco, colpevole di essere israelita. Togliatti li ha cancellati tutti e due questi scomodi ebrei, moglie e figlio, tant’è che nel 1956, partecipando all’epocale XX congresso del Pcus, non ritiene opportuno vederli e salutarli. Rita, disperata, si rivolge all’altro stalinista Vittorio Vidali, comunque più umano di Palmiro, per chiedere aiuto. E l’aiuto consiste nella possibilità, lei prigioniera in Unione sovietica, di poter riavere il passaporto per rientrare col figlio in Italia.

Vidali e, credo, Krusciov, che di Togliatti ha un’opinione pessima, fanno sì che i confinati Rita e Aldo possano finalmente tornare a Torino. Là Rita, che è ormai tutto il mondo di Aldo, si dedica al figliuolo sino al 1979, quando un ictus la porta via dalla valle di lacrime. Aldo torna così ad essere forzatamente «figlio del partito». Dopo un breve periodo in cui è ospite alle Frattocchie, il Pci modenese, nel 1981, lo fa internare in una locale casa di cura, stanza 227, quindi 429, incaricando il compagno Onelio Pini di fargli visita e di portargli la “Settimana Enigmistica” e le sigarette Stop senza filtro, uniche gioie, insieme agli scacchi giocati da solo, del povero Aldo. A parte Onelio e le cure amorevoli del dottor  Nino Costa, saranno i parenti ebrei gli unici a fargli sentire di essere ancora un uomo e non una cosa di cui vergognarsi. Non risultano da parte di Nilde Iotti e neppure della sorellastra, Marisa Malagoli, che pure mi pare sia specializzata in psichiatria, particolari attenzioni per la condizione di Aldo.

BLOCCATO DUE VOLTE DAI POLIZIOTTI
Aldo ebbe un solo sogno, comunque non comunista, quello dell’ebreo errante, anarco-individualista, di navigare sulla rotta delle caravelle di Cristoforo Colombo, verso un mondo diverso, nuovo, verso la Statua della libertà. Ci provò due volte a imbarcarsi per New York e per due volte i poliziotti di Togliatti gli tarparono le ali, bloccandolo. Solo ora, quell’uomo intelligente e delicato, prigioniero di Stalin, è davvero libero.

di Giancarlo Lehner

domenica 10 luglio 2011

VIA QUELLE RAGAZZE DALLE STRADE: RIAPRIAMO LE CASE CHIUSE!

E’ da un po’ che si parla del problema delle lucciole ai margini delle strade. I sindaci di città e paesi non le vogliono per tutta una serie di motivi: squallore urbano, concitazione notturna, urla e schiamazzi, rischi sanitari, proliferazione della criminalità organizzata ecc. Si sono escogitati tanti sistemi per arginare il fenomeno: oltre agli strumenti penalistici atti a contrastare lo sfruttamento della prostituzione e la riduzione in schiavitù, si sono messe in campo multe ai clienti delle lucciole, videocamere nelle zone interessate, passeggiate per scoraggiare i frequentatori e chi più ne ha, più ne metta. I risultati sono stati a dir poco insoddisfacenti. Sarà forse perché la prostituzione, notoriamente, è il mestiere più vecchio del mondo; fatto sta che non se ne è mai venuti a capo.
Davanti a questa situazione mi chiedo, dunque, perché a nessuno sia venuta in mente la soluzione più logica, l’unica in grado di salvare proverbialmente “capra e cavoli”, ossia ripensare alle cd. “case chiuse” ? Se il nome vi crea problemi, chiamatele come preferite: bordelli, case di tolleranza, lupanari, maisons; ciò che conta, infatti, è la sostanza: luoghi chiusi, tenuti sotto stretto controllo legale ed igienico-sanitario, da destinare al soddisfacimento del piacere sessuale previo pagamento di denaro. Se ci pensate bene, risolverebbero molti problemi: strade libere, nessun sentore di degrado cittadino, possibilità di monitorare costantemente il quadro sanitario, (e quindi prevenire la diffusione di malattie trasmissibili per via sessuale, in particolare la temutissima AIDS), significativo freno al fenomeno dello sfruttamento, tutela delle “operatrici del settore” e dei loro clienti. Basterebbe davvero poco, insomma, per risolvere il problema che, mi preme dirlo, non è certo lo scambio di denaro per sesso. Affrontare la questione in tali termini, infatti, significherebbe sconfinare nel campo dell’etica e chi, oggigiorno, può davvero giudicare qualcuno?  Il problema, invece, riguarda il fatto che tutto ciò avvenga in strade e stradine con tutti i rischi annessi e connessi, da un punto di vista sanitario e non solo.
E allora perché continuare a ripetere gli stessi sbagli? Perché continuare a seguire la strada tracciata dalla famigerata Legge Merlin che, almeno secondo le intenzioni della promotrice, doveva far sparire il problema della prostituzione, (un po’ come la chiusura dei manicomi, che più o meno è coeva, avrebbe dovuto far sparire dalla faccia della terra le patologie psichiatriche )? Forse perché siamo tutti un branco di moralisti bigotti e, come tali, preferiamo improvvisarci professori di etica e morale piuttosto che risolvere definitivamente il problema. O forse perché, ma non ci voglio pensare, le case chiuse ebbero molta fortuna negli anni del Ventennio e allora devono essere distrutte con tutto ciò che può essere messo in relazione ad esso. E guardate la sbornia progressista dove ci ha portati: secoli indietro!
E dire che a livello concettuale la soluzione sarebbe davvero molto semplice, poco dispendiosa e addirittura remunerativa. Da parte mia ipotizzerei la creazione di edifici,  privati sì, ma sotto stretto controllo pubblico, gestiti da tenutari che abbiano superato positivamente tutti gli accertamenti pubblici riguardo i loro rapporti con la legge penale, la loro onorabilità e la loro competenza. Le forze dell’ordine e il personale medico dovrebbero poi operare controlli continui su persone e luoghi. Si potrebbe pensare anche di registrare gli ingressi, tutelando  al massimo ovviamente la privacy dei clienti, affinché la situazione possa essere sempre monitorata. Tanto i tenutari quanto le signorine poi, avrebbero precisi oneri tributari a cui adempiere, con un indubbio vantaggio anche per l’erario.
Questo,insomma, è il mio punto di vista, una prima bozza, un primo approccio progettuale. Fatemi sapere come la pensate in merito.

Roberto Marzola.

giovedì 7 luglio 2011

L'INSEGNAMENTO DI RUTILIO SERMONTI

Ho avuto il piacere di conoscere non molte persone di reale valore in vita mia; anzi, persone che un tempo stimavo, mi hanno profondamente deluso nel corso degli anni. Le eccezioni in proposito sono state rare, specie in questo ultimo periodo. Una di queste, (oltre al compianto prof. Marco Pirina), è sicuramente Rutilio Sermonti.
Personaggio scomodo Rutilio Sermonti: una vita spesa al servizio dell’ideale fascista; arruolato volontariamente nella Repubblica Sociale Italiana; militante, spesso critico, del Movimento Sociale Italiano della prima ora, di Ordine Nuovo e della Fiamma Tricolore poi.
Non solo un uomo impegnato a livello politico-ideale, ma un vero e proprio intellettuale a tutto tondo: avvocato, brillante oratore, elegante scrittore, pittore e scultore di talento, preparatissimo zoologo e biologo. Eppure, malgrado il suo indiscutibile spessore culturale, viene sistematicamente ignorato dalla “cultura” ufficiale, bollato per il suo passato, che non ha mai rinnegato e mai rinnegherà.  Signori, questo è il moderno concetto di “democrazia”: se ti allinei sei dentro; se non ti allinei sei fuori.
Ma a Rutilio questo non è mai importato. E’ diventato l’emblema della coerenza, della fede e dell’abnegazione. Tutto, persino se stesso, pur di tenere alta la bandiera della sua vita, i suoi ideali. Niente e nessuno ha potuto fermarlo in vita sua. Ha sempre tirato dritto come un treno, combattendo i suoi nemici e detrattori su tutti i fronti, prima con il fucile, poi con la penna ed il pensiero.
L’ho rivisto ieri, ormai alle soglie dei 90 anni. E’ stata un’esperienza incredibile. La sua forza d’animo e la potenza delle sue idee mi sconvolgono ogni volta che lo vedo, che lo sento o che semplicemente lo leggo. Lo contraddistinguono anche una incredibile capacità di leggere la situazione politica dell’area, (di cui lamenta l’insensata frammentazione), e la sua lungimiranza, capace di far invidia a tanti politici, anzi politicanti, del giorno d’oggi. Un uomo d’altri tempi, di una consistenza diversa e molto più solida di quella di cui sono fatti gli uomini odierni, “fatto per seminare, non per raccogliere”, temo per lui.
Ha tanti progetti per il futuro, non solo suo, ma per tutto l’ambiente e, oserei dire, per tutta l’Italia. Ci ha lanciato, però, un chiaro monito: non ci sarà futuro senza unità d’intenti, se non si uniscono le forze per convogliarle in una sola direzione.  La frammentazione  è il più grosso successo del sistema, perché ghettizza persone e idee e, soprattutto, diminuisce la capacità di mettere in pratica quest’ultime.  Un insegnamento semplice e facilmente intuibile; eppure così difficile da mettere in pratica!
Ci ha proposto anche la soluzione: un ripensamento e una ri-valorizzazione dello strumento corporativo, l’unico in grado di superare la logica contrappositiva attuale, l’unico in grado di permetterci di remare tutti nella stessa direzione, per mettere la parola fine alla decadenza della nostra Patria.
Ha rivolto una domanda in maniera ossessiva a noi presenti : “vogliamo iniziare a lavorare tutti insieme?”.
Ed è questa domanda che io giro a Voi, per invitarVi a riflettere. Perché se lo dico io ha poco valore; ma se lo dice Rutilio la musica cambia.
Aspetto Vostre notizie.

Roberto Marzola.

lunedì 4 luglio 2011

VAL DI SUSA: ECCOLI I “PACIFISTI”

Avete visto ciò che è avvenuto in Val di Susa? L’avevo detto da tempo: questi sedicenti pacifisti sono una manica di imbroglioni, bravi a far credere una cosa e a farne un'altra. Davvero eccezionali! Lo dico senza ironia.
Scomodano Ghandi e Martin Luther King, condannano l’uso della forza in politica, (specie se c’è un’aquila di mezzo), e decantano i valori della pace e della tolleranza; poi però non si fanno scrupoli se c’è da mandare qualche agente di polizia all’ospedale o se si presenta l’occasione di distruggere ed incendiare. Che gliene frega? Del resto hanno sempre e comunque le spalle coperte. Mal che vada se la cavano con una tirata di orecchie da parte delle istituzioni, pronte a fare “no” col ditino della mano destra e a dare una consolatoria e assolutoria pacca sulle spalle  con la sinistra. Una farsa vergognosa, ben oltre i limiti dell’indecenza che però si ripete e che temo sia destinata a ripetersi ancora per molto tempo.
Dopo quanto accaduto a Genova per il G8 e a Roma per le proteste studentesche, (giusto per non andare molto oltre), stavolta tocca alla Val di Susa. Oggetto della protesta sono i lavori della TAV. Sì, avete capito bene: a questa gente non importa se ettari ed ettari del nostro splendido Paese vengono stuprati con l’eolico e con il fotovoltaico, vero e proprio terrorismo ecologista; a loro dà fastidio una linea ferroviaria ad alta velocità.  Le montagne non si toccano; tutto il resto, comprese pianure, colline, campi fertili, luoghi di interesse artistico-architettonico ecc., sì.
Chi se ne frega della coerenza!
Chi se ne frega se la costruzione di tali opere è stata democraticamente disposta!
Chi se ne frega dei vantaggi che può portare!
Conta solo la loro ideologia e quella va salvata a tutti i costi. Quella legittima insulti, aggressioni verbali e fisiche; giustifica quasi 200 agenti di Polizia e Carabinieri, più alcuni manifestanti, all’ospedale, con ferite più o meno gravi; autorizza il lancio di sassi, bombe carta, bottiglie di ammoniaca, l’uso di caschi e scudi in plexiglass tra gli attivisti.
E tutti gli altri manifestanti che fanno?Che fanno quelli che dicono di “isolare gli elementi violenti” e che si gloriano di “proteste pacifiche” ?  Stanno a guardare!  Assistono, forse addirittura compiaciuti, allo spettacolo. C’è anche chi fomenta la folla mentre tutto questo già in parte avviene, salvo poi cercare di salvare la faccia dicendo che, in realtà, le sue intenzioni erano altre. Poverino: non l’abbiamo capito!
Restano, infine, le dichiarazioni del leader della protesta, il quale ha avuto il coraggio di dire: “Abbiamo vinto. Li abbiamo assediati. Abbiamo raggiunto i punti più vicini del fortilizio. Siamo riusciti a smontare le recinzioni. Siamo riusciti ad andare via tutti. Questo era un assedio e l'assedio ha funzionato benissimo. Perché non dovremmo dire che abbiamo vinto? Adesso sanno che la vita sarà questa, che dovranno continuare così. Torneremo. Subiranno altre azioni meno grosse ma continue”.
Quasi come a dire: “siamo pacifisti sì, ma possiamo, anzi dobbiamo distruggere e provocare. E loro devono pure lasciarci fare”.
Onestamente non mi meraviglia tutto questo: tanto poi la colpa di certi episodi si può sempre dare alla “polizia che provoca” o agli “infiltrati.
Meditate gente, meditate, perché questa gente ci piglia letteralmente per il culo! E soprattutto dubitate sempre dei ciarlatani della “demokrazia”, dei difensori del “bene assoluto” e di tutti quelli che fanno bella mostra di alti valori. Troppo spesso senza neanche averne titolo.
Roberto Marzola.

venerdì 1 luglio 2011

PAGINE DI STORIA DIMENTICATE: PERASTO

Credo che l'Italia sia uno di quei Paesi che ha la memoria storica più corta di tutti gli altri. Per l'italiano avere coscienza piena del proprio passato è compito assai arduo, perché trattatasi di una storia avvincente sì, ma enorme, sconfinata, e che si muove in una direzione tutt'altro che retta!
Così capita, purtroppo, di dimenticare pagine di storia importantissime, forse "scomode" da un certo punto di vista; ma la loro importanza resta scolpita nel marmo.

E' il caso di
 Perasto, cittadina situata all'interno delle Bocche di Cattaro, oggi Montenegro. La sua storia è commovente per via della fedeltà, per il senso d'appartenenza e per il patriottismo che ne emergono. Difficile trovare una città che si senta più italiana, (anche se allora era forse più corretto dire veneziana, più che italiana); eppure l'abbiamo dimenticata, permettendo che la polvere del tempo la sommergesse. Cerchiamo allora di riportarla alla memoria, come sicuramente meritano le gesta dei suoi cittadini!
Perasto

Perasto entrò a far parte dei possedimenti di Venezia nel corso del Medioevo, pur a periodi intermittenti. Entrò definitivamente nella sua orbita a partire dal 1420. Vi rimarrà fino al 1797. Per la sua posizione strategica a ridosso del mare divenne un importante centro navale che ospitava ben 4 cantieri, una flotta di oltre 100 navi, (destinate a distinguersi nell’epica battaglia di Lepanto del 1571), e ben 1700 abitanti, (contro i poco più di 350 odierni)[1]. La sua fedeltà alla madrepatria veneziana , dimostrata nel corso dei secoli durante assedi e guerre sulla terra e sul mare, valse numerosi e prestigiosi riconoscimenti. In particolare, fu concesso alla città l’onore di custodire il gonfalone di guerra della flotta veneta; la guardia personale del Doge in battaglia, poi, era costituita dai "Gonfalonieri di Perasto", un Corpo indipendente della Milizia Veneta da Mar, sotto il diretto comando del Capitano Generale da Mar [2].
La pagina più commovente della sua storia, però, resta quella della sua caduta per mano delle truppe austriache. Le armate di Venezia, infatti, vinte dal nemico, decisero di abbandonare il campo; i perastini, invece, decisero di darsi un autogoverno e di rimanere veneziani fino all’arrivo definitivo del nemico. Scelsero di seppellire i vessilli, di cui erano i difensori, sotto l’altare del duomo, piuttosto che consegnarli al nemico. Durante la solenne cerimonia, Giuseppe de Viscovich, capitano della guardia, pronunciò un discorso che trasuda di eterno, di amore, di patriottismo, di lealtà e di fedeltà. Un discorso che vale la pena di leggere  e che dà il senso della differenza di valori tra ieri ed oggi, di come quei valori oggi siano ridotti al nulla e di come dal nulla siano stati rimpiazzati. Ed è con le sue parole che mi commiato e vi do appuntamento al prossimo articolo.
Buona lettura,
Roberto Marzola.


In questo amaro momento che lacera il nostro cuore; in questo ultimo sfogo d'amore e di fede al Veneto Serenissimo Dominio, ci sia di conforto, o Cittadini, il Gonfalone della Serenissima Repubblica, ché la nostra condotta presente e passata giustamente ci assegna questo atto fatale, per noi virtuoso e doveroso.
Sapranno da noi i nostri figli, e la Storia del giorno farà sapere a tutta Europa, che Perasto ha degnamente sostenuto fino all'ultimo l'onore del Veneto Gonfalone, onorandolo con questo atto solenne e deponendolo bagnato del nostro universale amarissimo pianto.
Sfoghiamoci, Cittadini, sfoghiamoci pure; ma in questi nostri ultimi sentimenti, con i quali sigilliamo la gloriosa carriera corsa sotto il Serenissimo Veneto Governo, rivolgiamoci a questa insegna e in essa consacriamo il nostro dolore.
Per trecentosettantasette anni la nostra fede e il nostro valore la hanno custodita per Terra e per Mare, ovunque ci abbiano chiamato i suoi nemici, che sono stati anche quelli della Religione.
Per trecentosettantasette anni le nostre sostanze, il nostro sangue, le nostre vite sone sempre state dedicate a Te, San Marco; e felicissimi sempre ci siamo reputati di essere Tu con noi e noi con Te; e sempre con Te siamo stati illustri e vittoriosi sul Mare.
Nessuno con Te ci ha visto fuggire; nessuno, con Te, ci ha visto vinti o impauriti!
Se il tempo presente, infelicissimo per imprevidenza, per dissennatezza, per illegali arbitrii, per vizi che offendono la Natura e il Diritto delle Genti, non Ti avesse tolto dall'Italia, per Te in perpetuo sarebbero state le nostre sostanze, il sangue, la nostra vita; piuttosto che vederTi vinto e disonorato dai Tuoi, il nostro coraggio e la nostra fede si sarebbero sepolte sotto di Te!
Ora che altro non resta da fare per Te, il nostro cuore Ti sia tomba onoratissima e il più puro e grande elogio, Tuo elogio, siano le nostre lacrime” [3].